Perché è (ancora) importante parlare di mafia?

Sentiamo parlare di mafia sin dalla scuola elementare, quando i maestri ci dicevano “che era sbagliata” e che, per combatterla, serviva “denunciare”. Alle medie abbiamo iniziato a leggere libri e guardare film su questo tema, e qualcuno potrebbe pure aver partecipato, insieme alla propria classe, a qualche progetto. Arrivati alle superiori, lasciando passare forse le conferenze a cui abbiamo assistito in prima, il tema della lotta alla mafia ci appare noioso e monotono, un discorsetto che si ripete e da cui abbiamo già tratto tutte le morali.
“A cosa serve”, ci chiediamo, “parlare ancora di mafia? Ormai siamo tutti consapevoli che si debba combattere!”

Ma siamo veramente sicuri che sia così?

Se si cerca su Google la parola “mafia”, si può notare – con grande sorpresa di chi crede che vi sia una solida coscienza antimafiosa – che i suggerimenti che il server propone sono titoli di videogames: Mafia, Mafia Mamma, Mafia II, Mafia: Definitive Edition, e molti altri a seguire. A quanto pare, la maggior parte degli utenti Google associa più facilmente al termine “mafia” un gioco rispetto ad un arresto o ad un delitto.
Ancora più sconcertante è l’obiettivo di questi giochi: la maggior parte di essi si configura infatti come RPG (role-playing game), e permette ai propri utenti di “immedesimarsi in un mafioso”, con i propri affari – ma anche le proprie persone – da “sbrigare”.
Si stima che oltre 100 milioni di persone abbiano avuto almeno un’esperienza di gameplay con un videogioco sulla mafia: si tratta di persone – ripeto, 100 milioni – che hanno deciso di occupare il proprio tempo libero a “giocare a vivere da mafiosi” e a gareggiare con i propri amici a chi “lo fa meglio”; per di più trovando tutto ciò divertente, piuttosto che preoccupante.

Cosa può, però, spingere una persona ad impiegare il proprio tempo libero a “giocare a fare il mafioso”, che, in altre parole, è “giocare a fare il criminale, il ladro, l’assassino” ?
Cosa può portare una persona ad indossare – e vi sono prove in rete di ciò – magliette che citano “This Is Mafia”, o che riportano stampata una fotografia di Bernardo Provenzano?

La risposta è, in realtà, molto semplice: il bisogno di sentirsi forti, potenti; bisogno che, secondo alcune ricerche scientifiche, è sempre più radicato negli adolescenti (per ulteriori informazioni, si veda l’articolo sulle baby gang dell’Humanitas Medical Care).

A questo punto, la domanda si trasforma, e diventa: perché questi ragazzi associano, alla mafia, la forza?

Alla base di questo fenomeno, vi è un problema di comunicazione mediatica, un insieme di misunderstandings che ha quasi trasformato la denuncia in “propaganda per la propaganda” mafiosa.

Si prenda, ad esempio, la serie televisiva Gomorra. Essa, tratta dall’omonimo libro di Roberto Saviano, è nata con uno scopo molto nobile: mostrare in tutta la sua crudità e crudeltà la realtà mafiosa, in particolare, quella camorrista. Ma purtroppo il grande pubblico era già abituato alle serie d’azione, con i loro eventi e personaggi taglienti, e dunque ciò che era stato pensato per far rabbrividire gli animi, si è rivelato consuetudine nel mondo dell’intrattenimento: una storia come tante altre, senza niente di particolarmente cruento o scioccante; semplicemente, ha come protagonisti dei mafiosi, che, nella loro cerchia, – non possiamo negarlo, né nella serie quanto nella realtà – sono uomini che sono reputati “forti”, “potenti” e “rispettabili”. E forse, è stato proprio questo che Gomorra – ma non solo – ha lasciato impresso, seppur involontariamente, nella mente della maggior parte degli spettatori: far parte della criminalità organizzata, seppur sia sbagliato sul piano dell’etica e del diritto, ti fa guadagnare in rispetto.
Gomorra ha dunque commesso solo un piccolo sbaglio dal punto di vista comunicativo – ed, intendiamoci, ha comunque mostrato le atrocità della mafia – : eppure, questo è stato il risultato.

Ma se vi fosse veramente una coscienza antimafiosa, se il mondo – o anche solo l’Italia – fosse veramente sensibile a questo tema, questi piccoli errori sarebbero stati trascurabili e trascurati, oppure i prodotti che li riportavano non avrebbero ottenuto successo: l’opinione pubblica, univoca e convinta del proprio giudizio sulla mafia, sarebbe riuscita a renderli innocui. Ma ciò non è successo.

E non si pensi che noi studenti, che ci crediamo sensibili al tema della lotta alla mafia, coscienti che essa non sia mai la soluzione, differiamo molto dal resto delle persone, anche da coloro che indossano il merchandising di Provenzano: infatti, quante volte ci è capitato di fare qualcosa di illegale, o che noi stessi sapevamo essere sbagliato, solo per non essere considerati “noiosi” o “pesanti”, solo perché volevamo essere accettati? Proviamo a pensare – senza “partire prevenuti” – di essere circondati da persone intrecciate con la mafia: come ci comporteremmo in questo caso? Se, per situazioni estreme, il non pagare il biglietto dell’autobus si trasformasse in compiere una rapina, anche di quelle piccole, siamo sicuri che ci rifiuteremmo?

Ecco perché è ancora importante – se non necessario – parlare di mafia: perché la maggior parte delle persone, molti di noi compresi, non hanno ancora capito; pensano di averlo fatto, si illudono di ciò, ma in realtà non è così. Crediamo di aver tratto tutte le morali dalle storie di mafia, ormai ci annoiamo quando ne sentiamo parlare: ma la verità, purtroppo, è che la nostra società – noi compresi – è ancora lontana dal poter essere definita “contro la mafia”.

E così ci troviamo di fronte ad un bivio: fingere che vada tutto bene, o continuare ad urlare; l’unica differenza è che la prima non cambierà mai lo stato delle cose, mentre la seconda, forse, lo farà.