Come Formiche

Vago tra le strade di una città di cemento e acciaio, con facciate vuote o ricoperte di annunci pubblicitari senza significato.
Le vie, una volta animate dal frastuono umano, sono ora dominate dal costante rumore del traffico urbano che forma un sottofondo assordante: una sinfonia caotica di clacson.
Le strade sono affollate, ma la folla è solo un insieme di figure senza volto, automi che si muovono con una fretta quasi disumana.
Camminano con lo sguardo rivolto verso il basso, immersi nei loro mondi digitali, indifferenti al palpito della vita che scorre attorno a loro.
Mi ritrovo a camminare tra le ombre di grattacieli imponenti. Sono diventato anch’io un’ombra, dispersa tra mille altre.
Oggi il tempo è grigio, l’aria è ancora impregnata di pioggia.
Questo grigiore scende pesante dall’alto di un cielo inesistente e si mescola insieme ai colori dei palazzi rendendoli ancora più sbiaditi.
Un raggio di sole cerca di infiltrarsi, ma fa fatica ad alleggerire la realtà circostante.
L’imponenza della città mi fa sentire piccolo, come una formica, e schiacciato, come la rada erba che cerca una via di uscita dal cemento che la opprime o le foglie secche che, schiacciate sotto le mie scarpe, scricchiolano quasi lanciando un urlo di dolore.
I giorni si susseguono come una sequenza sfocata, e ogni sforzo per attribuire valore alle azioni sembra vano. La modernità, con le sue distrazioni e superficialità, acuisce la sensazione di essere immersi in un mare di nulla.
Ogni azione quotidiana, dal caffè mattutino alla corsa verso l’ufficio, appare priva di sostanza. Mi chiedo cosa significhi davvero la mia presenza in questo mondo, ormai dominato soltanto da un groviglio di ansie, che mi fa sentire come se stessi affogando in un mare di aspettative irraggiungibili. Un mondo industriale, alla ricerca costante del progresso e del consumismo.

Mi sentivo intrappolato, avvolto da un senso di impotenza e angoscia che cresceva a ogni respiro.
Desideravo fuggire da questa prigione di cemento, ritornare a un tempo in cui il ritmo della vita era scandito dal respiro della natura e in cui le relazioni umane erano autentiche e profonde, non scandite da una serie di pixel senza profondità.
Ma nel cuore di questa metropoli, quel desiderio sembrava irraggiungibile.
Mi siedo su una panchina nel parco, osservo le foglie danzare leggiadramente al soffio del vento.
Respiro profondamente: sento il fresco soffio del vento sulla pelle, l’odore dell’erba umida, delle foglie bagnate, della resina misto ad altre essenze floreali che ancora colgono l’ultimo tepore che il sole le dona.
La sensazione di Nausea si allenta.
Mentre il sole tramonta, tingendo il cielo di sfumature arancioni e rosa, cerco di connettermi alla vita che, con tutte le sue complessità e bellezze, esiste al di là degli schermi che ci circondano.

Articolo di Chiara Cardella

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