Nel corso della storia alcuni esponenti dello Stato Italiano hanno intrattenuto rapporti con la mafia, proteggendo la latitanza di alcuni boss e screditando figure impegnate nella lotta antimafiosa; basti pensare a personaggi quali Peppino Impastato e Beppe Alfano, che, nel processo per la loro morte, vennero definiti terroristi, suicidi e femminari. Fortunatamente, queste vittime innocenti di mafia, nel corso degli anni, sono riuscite a essere riconosciute come tali; purtroppo, però, loro non sono le uniche a cui si è cercato di rovinare la reputazione: molte altre vite stanno infatti ancora aspettando la giustizia, che sembra tardare ad arrivare.
Oggi ci preme raccontare la storia di una vittima innocente di mafia, che ancora ai giorni nostri, non è riconosciuta come tale: si sta parlando di Attilio Manca, uno dei medici urologi più bravi d’Italia, che, esattamente vent’anni fa, perse la vita nello stesso ospedale in cui esercitava la propria professione.
Chi è Attilio Manca?
Cresciuto a Barcellona Pozzo di Gotto, snodo nevralgico degli interessi della mafia catanese con quella palermitana, nel 2004 Manca è uno degli urologi più stimati sul piano nazionale, e, in particolare, tra i migliori in Europa per quanto riguarda la pratica di un intervento mini-invasivo alla prostata.
La morte (o, meglio, l’omicidio)
34enne, forse volenteroso di costruirsi una famiglia, l’8 febbraio del 2004, durante una chiamata con la madre Angela, manifesta la volontà di comprare casa: si tratta di un progetto a lungo termine, che tuttavia non troverà mai realizzazione, in quanto, dopo soli tre giorni, nella notte tra l’11 e il 12 febbraio, verrà trovato morto presso l’ospedale Belcolle di Viterbo, dove lavorava. L’autopsia rivela la causa del decesso: un’inoculazione letale nell’avambraccio sinistro, composta da sedativi, alcol ed eroina; il cadavere riporta anche ecchimosi sparse in tutto il corpo e il setto nasale deviato da un impatto fortissimo.
L’inizio di un lungo excursus giudiziario
La procura di Viterbo non ci pensa due volte: lo definisce prima un suicidio, poi una morte per overdose prolungata. Amici e parenti, però, la pensano diversamente: troppe cose, nella spiegazione del pubblico ministero, non tornano. Loro sono convinti che si tratti di un omicidio, e non si danno per vinti: si dà quindi il via a una lunga fase di investigazioni, processi e ricorsi, dai quali si scoprirà che le circostanze della morte di Attilio Manca sono molto più intrecciate di quello che, in un primo momento, si era pensato.
Spiegare il caso Manca: Luciano Armeli e Le Vene Violate
A spiegarci in maniera chiara l’excursus giudiziario e le varie piste investigative seguite è il professor Luciano Armeli Iapichino, docente di storia e filosofia che, nel 2011, pubblica il libro Le Vene Violate: dialogo con l’urologo siciliano ucciso non solo dalla mafia che tratta, per l’appunto, la storia di Attilio Manca. Esso verrà aggiornato ben cinque volte, in quanto, dal 2011 ad oggi, la narrazione della vicenda cambierà, verranno aggiunti dei possibili indizi ed eliminati degli altri, si percorreranno delle piste che, in realtà, saranno solo dei depistaggi, e tanto altro.
La prima pista inseguita: si è trattato di un suicidio?
Come si è già accennato, la prima linea investigativa che la procura di Viterbo decide di inseguire è quella del suicidio, suggerita dalla dottoressa Dalila Ranalletta, a cui era stato affidato il referto autoptico. Questa, che era stata anche il CTP di Massimo Bossetti nel processo per la morte di Yara Gambirasio, ritiene infatti che i lividi e la deviazione del setto nasale rinvenuti siano precedenti alla notte della morte di Manca, e che pertanto, non essendoci prove di un attacco violento, l’atto debba essere stato per forza volontario. Ben presto però questa pista viene abbandonata: come avrebbe potuto, infatti, lo stesso uomo che tre giorni prima aveva espresso la volontà di comprare casa, porre fine volontariamente alla propria vita? Inoltre, sulla scena del crimine, la siringa utilizzata per l’inoculazione del miscuglio letale è stata rinvenuta nell’apposito cestino; al chè sorge spontanea una domanda: perchè un suicida dovrebbe nascondere le prove del suo stesso suicidio? Appare quindi evidente il motivo per il quale l’ipotesi della morte autoindotta sia stata scartata.
Il depistaggio: “è morto per overdose”
Un’altra pista che si prova a percorrere è quella della droga, sollecitata da una dichiarazione da parte di uno pseudonimo che sosteneva che un dottore dell’ospedale Belcolle di Viterbo – ovvero, dove lavorava Attilio – facesse uso abituale di eroina; qualche anno più tardi, lo stesso soggetto viene condannato per falsa testimonianza nel processo per la morte di Beppe Alfano, e pertanto tutte le sue dichiarazioni vengono ritenute da scartarsi. Nonostante ciò, la pubblica amministrazione continua ad investigare sulla presunta dipendenza da eroina di Attilio Manca per ben quindici anni, individuando pure come possibile pusher una donna chiamata Monica Mileti, che solo nel 2017 verrà dichiarata innocente.
Una “nuova” ipotesi: esiste una correlazione tra la morte di Manca e la latitanza di Bernardo Provenzano?
Durante questi anni di depistaggio, però, vengono anche raccolte delle testimonianze che rivelano un quadro molto più complesso sul decesso dell’urologo siciliano: cinque pentiti di mafia, infatti, in periodi piuttosto distanti tra loro, lo collegano alla latitanza di Bernardo Provenzano, e a una sua presunta operazione alla prostata.
Le varie versioni della storia coincidono tra loro: Provenzano, latitante presso il convento Sant’Antonio di Barcellona Pozzo di Gotto, nel 2003 scopre di avere un tumore alla prostata e di doversi pertanto sottoporre a un delicato intervento chirurgico. Non potendo uscire allo scoperto in Italia, il capomafia decide di farsi operare in una clinica di Marsiglia, ingaggiando tuttavia un medico la cui bravura è rinomata – soprattutto nella città in cui Provenzano è nascosto – : questo medico sembrerebbe proprio essere Attilio Manca. I due si incontrano nella clinica della marsigliese, l’uno in regola, l’altro sotto il nome di Gaspare Troia: proprio in questa occasione, Attilio scopre la vera identità del paziente, e si rifiuta di collaborare con questo; purtroppo, però, è troppo tardi per tirarsi fuori da questo intreccio mafioso, e la non-collaborazione gli costa la vita. Il suo omicidio viene commissionato a Giuseppe Campo, ma, all’ultimo momento, si decide di affidarlo a Ugo Manca, cugino di Attilio, per destare meno sospetto nella vittima.
Queste narrazioni sembrerebbero concordare anche con le prove raccolte: la latitanza di Provenzano presso il convento di Sant’Antonio sarebbe infatti stata già denunciata più volte, e da un interferenza telefonica tenuta nascosta per molti anni sembrerebbero sentirsi chiaramente due gregari del boss mafioso affermare “al medico bisogna fare la doccia”. Più di dieci anni dopo, Chi l’ha visto scopre inoltre che, negli stessi giorni in cui è iniziata la procedura per le cure di Gaspare Troia, Attilio si è assentato dal lavoro. Anche per quanto riguarda l’esecutore, sembrerebbero esserci dei fatti a confermare le parole di Campo, in quanto l’unica traccia di DNA sulla scena del delitto apparterrebbe proprio a Ugo Manca.
Una conclusione che tarda ad arrivare
Le prove che sostengono quest’ultima ipotesi, negli anni, sono diventate sempre di più; l’ultima è stata un tentativo di avvelenamento della madre Angela – infatti, perché mai la si dovrebbe uccidere, se non perché si sta avvicinando alla verità? -.
Tuttavia, ad oggi, vent’anni dopo il tragico avvenimento, nonostante tutte le evidenze che riconducono la sua morte a un omicidio, lo Stato considera ancora Attilio Manca un tossicodipendente.
Per ulteriori approfondimenti si consiglia la lettura del libro Le Vene Violate di Luciano Armeli Iapichino