Lastra di vetro

Una scatola venne chiusa, e fu tutto buio. 

Nella mia mente si susseguivano, pensieri, immagini, ricordi. Il vento che faceva frusciare i miei capelli come foglie di alberi, il sole splendente nel cielo che mi bruciava la pelle, io incurante che correvo, gli spruzzi di acqua salata che arrivavano sulla battigia. Ma poi si faceva notte ed arrivavano i mostri, ombre di nebbia che mi inseguivano nel buio, ed erano fredde, così fredde che quando mi raggiungevano non c’era altro che gelo, mille lame ghiacciate che scivolavano sulla mia pelle.

Aprii gli occhi ansimando. C’erano solo lenzuola sudate e ancora buio, il silenzio, un vuoto troppo grande per essere colmato, il mio cuore che batteva così forte che mi sembrava di udirlo urlare. 

Una volta in un sogno ero corsa su una montagna come in preda ad una strana foga, avevo trovato un posto isolato, e avevo gridato, urlato fino a non avere più fiato nei polmoni. Poi mi ero svegliata nel cuore della notte, come succedeva sempre, e avevo capito che quell’urlo era quello che nascondevo dentro e che soffocavo in singhiozzi dentro il cuscino. Un urlo con cui cercavo la libertà che mi era stata tolta.

Da quando era iniziata la pandemia e ci avevano rinchiusi nelle nostre case le giornate erano tutte uguali, e come sospese nel vuoto scivolavano nell’oblio. Le notti erano il loro alter-ego oscuro, il mostro, l’ombra che calava e avvolgeva il mondo. Esattamente come le giornate si erano smorzate, le notti si erano intensificate. Guardando al di fuori della finestra il sole non splendeva più, gli alberi non erano più verdi, il vento non soffiava, i colori dei fiori erano spenti. Ma durante la notte tutto ciò che non c’era di giorno mi si riversava addosso, come un’onda troppo grande per essere domata. 

Fu durante i mesi che passai chiusa in casa che, senza rendermene conto, iniziai a costruire attorno a me una campana di vetro, uno scudo sottile che mi separava, mi proteggeva dal resto del mondo. Mi resi conto che non avevo bisogno di quello che c’era fuori, all’interno di quella barriera mi sentivo al sicuro e trovavo conforto nella solitudine. Dimenticai ciò che era stato il passato, la mia vita era chiusa all’interno di una bolla e credevo che lo fosse sempre stata, solo vecchi ricordi confusi mi perseguitavano di notte e non mi lasciavano andare fino al mattino. Casa mia non mi era mai sembrata così piccola, mi sembrava affollata e opprimente, ma nonostante questo mi sentivo sola, volevo evitare il contatto umano con gli altri come se ne avessi avuto paura.

Tutto ciò che avevo avuto non esisteva più, viveva solo in immagini fugaci che ogni tanto mi apparivano davanti agli occhi. Pian piano iniziai a pensare che non avevo bisogno del mondo esterno se nella mia testa potevo avere tutto quello che volevo. Al di sotto di quella campana di vetro creai un mondo tutto mio, preferivo sprofondare nella fantasia che affogare in una realtà frammentata e priva di emozioni. 

Ormai la scuola era come se non esistesse, non avevo bisogno di parlare con nessuno, si era spenta quella voglia di amicizia e di amore che avevo preferito annegare. E nel frattempo soffocavo io, quando sentivo di non riuscire a respirare e mi prendeva una paura irrefrenabile di morire, una voglia di piangere, un bisogno di urlare. 

Di notte sognavo un paio di grandi, meravigliosi, profondi occhi azzurri, di un colore cristallino come l’acqua. Sapevo a chi appartenevano, erano l’unico ricordo vivido che avevo del “prima”, ed anche l’unico che non riuscivo a proiettare nel mio mondo. Erano solo nei sogni, e sapevo anche che erano irraggiungibili. Sapevo che avrei potuto solo guardarli attraverso il vetro e le nostre mani non avrebbero mai potuto toccarsi. 

Nell’amore non ci credevo più: è momenti fugaci di gioia, pianti di notte, giorni di dolore, l’amore è quel vuoto che senti nel petto dopo che il “tutto” è svanito.

Meglio non uscire, non esporsi all’amore, ai sentimenti, a quello che succede fuori, avevo paura della felicità perché essa non esiste senza il dolore. La pandemia mi aveva costretto a restare in casa, e con il passare del tempo mi ci abituai, iniziai a non voler più uscire di mia volontà. Preferivo restare chiusa in me stessa, nella mia campana di vetro dove avevo trovato un equilibrio, quella delicata condizione precaria in cui tutto funzionava e la mia testa non urlava. Ma sarebbe bastata la minima cosa a spezzare quell’equilibrio, il più piccolo cambiamento avrebbe potuto mandare tutto in pezzi.

Così capii che in ogni caso ero imprigionata nella mia stessa testa: quando c’era il vetro ero rinchiusa dentro di esso, non erano solo gli altri a non poter entrare ma io non potevo uscire, e quando invece il vetro non c’era più la mia testa non mi lasciava più pensare, faceva solo rumore, urlava e non mi dava tregua. 

La mia mente è sempre stata tanti pensieri confusi, tante idee, tante frasi, immagini, colori che si susseguivano e correvano troppo velocemente perché io potessi star loro dietro, le ombre che mi inseguivano, i silenzi che urlavano, frammenti di realtà e illusione che si fondevano finché non distinguevo più l’una dall’altra. 

Poi un giorno finì. Senza che potessi farci nulla quella lastra di vetro che era diventata parte di me andò in pezzi, e io mi frantumai con essa.

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