Il prezzo del successo

-Sta arrivando!

-State tutti pronti.

-Fate silenzio! – urlò qualcuno.

 

La porta si spalancò. La stanza era piena di persone, ma nessuno fiatava. Nessuno osava fiatare. Comparvero prima due bodyguard, e poi lei. Lei, Ashley Evans, la fondatrice della multinazionale più grande e più ricca del mondo, con le sue idee rivoluzionarie e geniali. Una delle donne più influenti e rispettate del secolo.

Apparve con un paio di grossi occhiali scuri, i capelli blu tagliati corti, e uno smoking da uomo che indossava con un paio di scarpe con il tacco a spillo sorprendentemente alto. Camminava con una sicurezza spaventosa, come se si sentisse al di sopra di qualunque altro. Come se si sentisse quasi divina. E in effetti, chi la conosceva diceva che era proprio così.

 

Oltre ad essere nota per la sua genialità, e la sua bellezza originale, era famosa per essere una donna antipatica, arrogante, inflessibile e molto esigente. Si diceva anche che frequentasse molti uomini, ma che non si fosse mai veramente innamorata. Ma erano solo dicerie. Era molto riservata sulla propria vita privata.

 

Quando entrò nella stanza, l’atrio di una delle sedi della sua azienda, non salutò nessuno, guardò fisso davanti a sè senza togliersi gli occhiali e per tutto il tempo si sentì solo il rumore dei suoi tacchi a spillo che si dirigevano verso l’ascensore. L’ascensore partì, e al piano terra dell’edificio si sentì come un unico grande sospiro di sollievo.

 

Tutti i dipendenti avrebbero dovuto essere onorati del fatto che la signora Evans fosse lì, proprio in quella sede, e del fatto che si sarebbe trattenuta per un mese o due. Ma più che altro erano agitati e spaventati. Avevano visto di persona quella donna per la prima donna, e avevano avuto la conferma del fatto che tutto quello che si diceva su di lei fosse vero. E che quello che dicessero addirittura non bastasse a descriverla. Lei era di più. Era di più sotto ogni aspetto. Era fantastica.

 

Il suo ufficio, all’ultimo piano, era enorme. Le pareti erano completamente in vetro, ma in modo che lei potesse vedere fuori ma nessuno potesse vedere dentro. La scrivania, in legno nero era molto semplice e moderna. C’era un tappeto pregiato sul pavimento e piante in tutta la stanza. Era una stanza molto luminosa. In quel momento la signora Evans era lì dentro da sola, come da lei richiesto.

 

-Ehi tu! – urlò a un ragazzo, uno delle pulizie che passava lì davanti. – Portami un caffè. Bollente e senza zucchero. Veloce!

 

Il ragazzo, che non aveva realizzato chi fosse quella donna, fu intimidito e si affrettò a portarle quel caffè.

 

-Ecco a lei… – mise il caffè sulla scrivania e si girò per andarsene, impaurito da quella donna sconosciuta.

 

-Fermo! – disse lei, con voce gelida. – Dove stai andando?

-A finire di fare le pulizie in questo piano, signora.

-No, tu mi servi qua. Convoca una riunione di tutto il secondo piano per oggi pomeriggio, e portami quei documenti della segreteria. E già che ci sei, passa dal bar. Come si beve un caffè senza qualcosa da accompagnarci? Mi servirà anche un altro caffè perchè questo nel frattempo si sarà raffreddato.

-Ma signora, io sono stato pagato per pulire. Sono solo un ragazzo che lavora per arrotondare, e non so chi sia lei, ma ho del lavoro da portare a termine…

-Ah, quindi tu non sai chi sono io?

-Esattamente, signora.

-Nessun problema. Qua decido io. Ora fai quello che ti dico e muoviti!

 

Quella stessa sera tutti nell’azienda sapevano che la grande Ashley Evans aveva trasformato un ragazzo delle pulizie nel suo assistente. Nonostante ci fossero persone più competenti di lui, non c’era stato modo di farle cambiare idea. Ormai aveva deciso. Nessuno sapeva cosa lei ci avesse visto in lui, ma ormai per lui non c’era scelta. Finchè la donna sarebbe rimasta lì, avrebbe dovuto farle da assistente. Quando i collaboratori di Ashley glielo dissero, lui quasi svenne. Aveva sentito parlare di lei, ma non l’aveva mai vista in foto. Non l’aveva riconosciuta. E ora si ritrovava a lavorare per lei.

 

Così passò qualche settimana.

 

-Signora, ora che ci conosciamo meglio, posso farle una domanda? – la donna sembrò fare una faccia strana quando il ragazzo pronunciò quelle parole.

-Va bene.

-Come mai ha voluto me? Ci sono tante persone più qualificate per quello che sto facendo io.

-Mh, non lo so. – rispose fredda, quasi volesse evitare la vera risposta. – Ora portami sto caffè!

 

Il ragazzo se ne andò, un po’ triste per la risposta così fredda. Ma del resto cosa si aspettava? Lei era così fredda e antipatica. Era meglio evitare di prendersi confidenze, e fare solo lo stretto necessario, non avere aspettative troppo alte su di lei e sapere che avrebbe trattato chiunque con freddezza.

 

A fine giornata il ragazzo salutò: – Arrivederci signora! – come faceva ogni sera, sapendo che lei non avrebbe risposto, come non salutava mai.

 

-Aspetta. – rispose invece. – Ho voluto te come assistente perchè mi ricordi come ero io da giovane. Quanti anni hai?

-Diciassette, signora.

-Avevo la tua età quando ho preso le prime decisioni che mi hanno portata a questo punto. Prima ero solo una ragazza che faceva la cameriera in un bar, senza alcuna prospettiva per il futuro.

-E poi cos’è successo? – Sembrava impossibile, ma anche la grande Ashley Evans aveva un passato. Aveva dei sentimenti, forse.

-Poi sono cambiata. Non è una storia che racconto. Però ricordati che ogni cosa nella vita ha un prezzo. E non puoi nemmeno immaginare quale sia quello del successo. E di un successo come il mio.

-Capisco. Grazie, signora. – rispose il ragazzo, e se ne andò.

Per il mese successivo, finchè Ashley Evans restò lì, nessuno dei due parlò più di quella conversazione. L’azienda stava andando particolarmente bene, con incassi alle stelle.

E un giorno il ragazzo arrivò al lavoro e trovò che lei non c’era.

-Se n’è andata. – gli disse un ragazzo delle pulizie. – Hanno detto di dirti di tornare al tuo lavoro di prima e di pulire il suo ufficio.

 

Entrò nell’ufficio di Ashely Evans; sulla sua scrivania c’era solo una busta bianca. Forse non avrebbe dovuto aprirla… ma se era lì c’era un motivo. C’erano parecchi fogli dentro, scritti con una calligrafia prima elegante e ordinata che man mano si faceva più scarabocchiata. Ed era chiaramente indirizzata a lui, anche se non c’era nessun nome.

 

“Ho ripensato alla domanda che mi facesti quella mattina e alla risposta che ti detti quella sera. Ti dissi che tutto aveva un prezzo. E che non te ne avrei parlato. Non ne ho mai parlato. È molto complicato. E non so perchè, ma ho deciso di raccontarti questa storia. Non so perchè a te, come non so perchè quel giorno ho deciso che saresti diventato il mio assistente. Penso che sia solo una sensazione che ho. Ovviamente vorrei che le informazioni contenute in questa lettera fossero lette solo da te e non divulgate, ma hai tutta la libertà di non leggere, oppure di fare di queste parole tutto ciò che vuoi, non sei vincolato da nulla. Non c’è nessun accordo che ti intimi di mantenere il segreto, c’è solo la mia speranza che tu lo custodisca. 

 

Una cosa che in pochi sanno di me è che ho origini italiane, sono nata e cresciuta là. Circostanze esterne mi hanno poi portata in America sotto questo nome, che ovviamente non è il nome che mi è stato affidato alla nascita. 

 

Frequentavo le scuole medie, e tutti mi consideravano una ragazza strana. Avevo, come ho ancora adesso, uno stile un po’ particolare e diverso. Ho sempre portato i capelli corti, e dicevano che non si addiceva ad una ragazza. E ho sempre odiato gli stereotipi, il fatto che una ragazza si dovesse vestire e comportare in un certo modo. Quindi cercavo di non seguire la moda, mi tagliavo e mi tingevo i capelli, non portavo mai la gonna, usavo vestiti larghi. Per questo dicevano che ero strana. E non mi hanno mai accettata per quello che ero. La cosa strana è che era anche per quel motivo che continuavo con quello stile. 

 

I miei genitori odiavano il modo in cui mi comportavo e mi vestivo, e per “rimediare al problema” hanno deciso di mandarmi in una scuola superiore privata, quella in cui studiava anche mia sorella maggiore. Mia sorella maggiore era considerata un esempio, la “ragazza modello”. Ma io la odiavo. Era tutto quello che io non volevo essere. E volevano forzarmi ad essere come lei iscrivendomi a quella scuola. Che tra l’altro era un collegio femminile. Io avevo soprattutto amici maschi. Quindi mi sarei trovata in un istituto pieno di stupide ragazze noiose e figlie di papà.  

 

Il mio primo giorno di scuola alle superiori imparai che in quell’istituto c’erano due tipi di persone: la maggioranza, noiose, studiose e “perfettine”, tra cui mia sorella, e poi c’erano quelle più come me. Eravamo in poche. Eravamo quelle che erano state mandate lì per provare a “rieducarle” e farle diventare delle brave ragazze come le altre. Eravamo quelle che disobbedivano alle regole, che di notte uscivano e si arrampicavano sul tetto a fumare. Solo grazie a loro la scuola fu meno schifosa. Ebbi anche una relazione con una di loro: avevo bisogno di amore, di qualcuno che mi stesse accanto e in quella scuola non c’erano ragazzi. Ma in realtà non c’è mai stato amore, nè da parte mia nè dalla sua, nonostante con lei mi trovassi bene e fosse molto carina.

Però un giorno, dopo che sul mio curriculum si erano accumulati episodi di mancanza del rispetto delle regole, trovarono due pacchetti di sigarette sotto il mio materasso. Non erano miei, facevamo a turno con le ragazze per nasconderli, in modo che fosse più difficile essere scoperte. Fui espulsa all’istante, anche a causa di quelli che chiamavano “i miei precedenti”. Nessuna delle mie “amiche” provò a coprirmi o a dire la verità. Per loro ero semplicemente la vittima da sacrificare per continuare a fare quello che facevano. Non rividi più nessuna di loro. E non mi importa più di loro. 

 

A quel punto i miei genitori mi odiavano. Iniziarono a pretendere che rigassi dritto e che pagassi un affitto mensile per poter restare nella mia stanza. Dicevano che se mi fossi tinta o tagliata ancora i capelli mi avrebbero buttata fuori di casa e mandata in un orfanotrofio. Nel frattempo, infatti, avevo dovuto rifare i capelli di un colore naturale e farli ricrescere per poter stare in quel collegio. 

Così lasciai stare i capelli, mi trovai un lavoro in nero in un bar per poter pagare l’affitto che volevano i miei. Mi conveniva perchè il costo era più basso di qualunque altro appartamento e poi c’era la questione che avevo sedici anni e non sarei potuta andare a vivere da sola. Non tutti i soldi che guadagnavo mi servivano per pagare i miei, così con quello che avanzava mi ci compravo le sigarette, o la droga. Avevo abbandonato la scuola, non avevo più progetti per il futuro. Mi ero lasciata completamente andare, e nessuno se ne era accorto.

 

Odiavo i miei genitori. Non avevo amici. Ci vedevamo solo per fumare o ubriacarci alla sera. Non avevo relazioni, non frequentavo nessuno. Mi stavo rovinando la vita, e stavo prendendo la decisione di farla finita. E sarebbe andata così se una sera d’estate la casa dei miei genitori non fosse andata a fuoco. Al momento dell’incendio io ero a lavorare, e in casa c’erano tre persone. I miei genitori e mia sorella, che d’estate viveva a casa. Nell’incendio morirono tre persone. Tre persone orribili che costituivano l’unica famiglia che avessi mai avuto. Ero ancora minorenne, avevo diciassette anni, e sapevo che i servizi sociali sarebbero venuti a cercarmi. Così, dopo aver preso la paga, quella sera non parlai con nessuno, con i soldi che avevo mi feci un passaporto falso e comprai un biglietto aereo per l’America. Col passaporto era inclusa una carta d’identità americana, che mi consentiva di vivere lì legalmente con il nome Ashley Evans. (l’uomo che aveva fatto i documenti mi aveva chiesto molti soldi per ottenere una carta d’identità in regola e approvata dal governo con un nome falso) 

 

Fu così che arrivai in America. Avevo tagliato i contatti con tutti, non conoscevo nessuno. Non avevo un diploma, non avevo nulla. Fu così che, nonostante fossi nella disperazione totale, smisi con l’alcol e con la droga. Temporaneamente anche con le sigarette. 

 

In America ho iniziato ad impegnarmi veramente. Studiai, e il resto della storia lo conoscono tutti. Sono diventata quella che sono. Ma per tutto questo, ho rinunciato all’amicizia, all’amore. Dopo quello che mi era successo, non potevo più fidarmi di nessuno. Ho rinunciato all’affetto. Trattavo male tutti quelli che incontravo perchè non volevo affezionarmi, non volevo che mi giudicassero per il mio stile, per quella che ero, perchè volevo nascondere il mio passato e fingere di non essere mai stata quella ragazza in Italia. Da allora fingo che la mia vita sia iniziata lì, quando sono arrivata in America. Quando ho iniziato ad essere la donna che sono ora. Quando ho rinunciato a tutto il resto della vita per questo lavoro, per il successo. 

 

Penso che forse ero destinata a questo, alla fama, al successo. Ho iniziato a pagare per esso quando ero giovane. Con le prese in giro dei compagni, con il rifiuto da parte della società. Con i due anni passati in collegio. Con l’odio da parte dei miei genitori, con il modo in cui mi trattavano. Con l’alcol, con quelle serate di cui non ricordo nulla a parte un terribile mal di testa. Con l’incendio. Con la solitudine che provavo quando ero in America all’inizio. Con le giornate e le notti passate a studiare, per provare a ricostruirmi una vita e un futuro.

E sto ancora pagando. Tutti mi odiano. Non ho una famiglia, un compagno. Per quanto possa essere schifosamente ricca, famosa, rispettata, non ho una vita. Tutto quello che mi resta è il mio lavoro, la mia azienda. Ed è questo il prezzo del successo. 

 

Tutto si deve bilanciare. Perchè non puoi avere qualcosa di bello senza soffrire. Per ogni azione c’è un effetto. Per ogni scelta c’è una conseguenza. Per ogni cosa c’è un prezzo da pagare. 

 

Potresti anche andare in un negozio e rubare qualcosa di molto prezioso, credendo di non aver pagato. Ma poi vivresti con il terrore di essere scoperto. Oppure verresti scoperto e vivresti in una prigione. E quello è il prezzo.”

 

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