Quella che segue è un’analisi delle visioni della felicità nei pensieri di alcuni tra i filosofi più importanti e conosciuti dagli studenti.

 

Platone 

Platone, filosofo ateniese vissuto tra il V e i IV secolo a.C., riteneva che la felicità per l’uomo risiedesse nella realizzazione del Bene, sia nell’uomo che nella società; bene raggiungibile rispettando le leggi, le quali a loro volta permettono di seguire le virtù come, saggezza, temperanza, coraggio e giustizia.

Il raggiungimento della felicità è però possibile, secondo il filosofo, solamente nello stato ideale, nel quale la comunità è retta dai filosofi (definibile con sofocrazia o noocrazia), che egli espone nell’opera politica “Repubblica”.

Lo stato che delinea è un’utopia (ou: non, topos: luogo; modello ideale non realizzabile che però deve fungere da faro nella nebbia dello stato) .

Il filosofo ritiene che uno stato ideale debba avere come fine la giustizia, infatti secondo Platone nessuna comunità umana può esistere senza la giustizia, la quale è dunque la condizione fondamentale della nascita e della vita dello stato.

In una comunità ideale c’è una divisione in classi sociali, in quanto nello Stato ci sono compiti diversi che devono essere svolti da persone diverse:

Governanti, coloro che governano: la loro virtù è la saggezza e sono le persone che hanno preponderante la parte razione dell’anima.

Guerrieri, coloro che devono difendere lo stato: la loro virtù è il coraggio e vi appartengono tutte quelle persone che hanno la parte irascibile dell’anima maggiormente sviluppata.

Lavoratori/produttori, l’ultima classe sociale: la loro virtù è la temperanza (la capacità di poter tenere a bada i propri istinti e più in generale il principio secondo cui l’inferiore debba essere subordinato al superiore), e vi appartengono tutti coloro che hanno la parte concupiscibile maggiormente sviluppata.

Appartenere ad una classe sociale piuttosto che ad un’altra non dipende da un diritto di nascita ma alla naturale inclinazione dell’individuo. Per farci comprendere meglio questo punto, Platone ricorre ad un’antica leggenda fenicia, il mito delle Stirpi, secondo cui esistono tre tipi di uomini: gli uomini d’oro (ovvero i più rari) che corrispondo ai filosofi, gli uomini d’argento (meno rari di quelli d’oro) che simboleggiano i guerrieri, e gli uomini di bronzo/ferro (molto comuni) che rappresentano i lavoratori. Nell’immaginario platonico un bimbo di bronzo nato tra uomini aurei dovrà essere retrocesso di classe e così via. Tuttavia “la mela non cade mai lontano dall’albero”, e solitamente i figli assomigliano ai padri, restando nella classe di provenienza, e solo raramente avviene il contrario.

Secondo il filosofo è solo grazie a questa tripartizione della società che si può raggiungere la giustizia (e conseguentemente la felicità), che si realizza quando ciascun cittadino svolge il proprio compito e ha ciò che gli spetta.

Inoltre, la giustizia nella società è lo specchio della giustizia interiore di ciascun cittadino, che si realizza quando ciascuna parte dell’anima svolge solamente la propria funzione. 

Secondo Platone, inoltre, affinché lo stato ideale funzioni bene e si realizzi la giustizia ci deve essere l’eliminazione della proprietà privata e la comunanza dei beni per le classi superiori che, in questo modo, potrebbero perseguire solamente il bene dello stato senza avere conflitti di interessi. I governanti dovrebbero, secondo il filosofo, nutrirsi solo di cibo semplice e vivere in piccole case.

Cì sarà inoltre la completa uguaglianza tra uomini e donne.

La classe al potere non avrà famiglia, tutti i matrimoni saranno gestiti dallo stato, avranno una breve durata e saranno volti solo alla procreazione di figli sani (forma di eugenetica). 

I figli una volta nati dovranno essere sottratti ai genitori e dovranno crescere in comunità con gli altri bambini.

E’ importante che i genitori ignorino chi siano i figli e viceversa: tutte queste politiche familiari infatti servono sempre per evitare la comparsa di conflitti di interessi.

Nello stato platonico è inoltre di vitale importanza l’educazione. Platone concepisce infatti lo stato come una grande Accademia, avente come scopo la formazione permanente di ineccepibili governanti e guerrieri.

Il modello platonico si configura quindi come un organicismo politico, poiché considera lo stato come un grande organismo che può funzionare solamente se tutte le sue parti svolgono la propria funzione. 

E’ anche una forma di statalismo esasperato, perché la vita della società è regolamentata fin nei minimi dettagli dallo stato.

 

Epicureismo 

Il filosofo greco Epicuro, vissuto tra il Iv e il III secolo a.C., riteneva la felicità il fine ultimo della filosofia.

La filosofia epicurea aveva dunque un fine pratico, la felicità, la quale era intesa come aponia e atarassia, ovvero come assenza di turbamenti dell’anima e come assenza di dolore fisico.

Nella famosa “Lettera a Meneceo” è ben visibile come questa dottrina doveva essere una sorta di tetrafarmaco che permettesse, eliminando i quattro mali fondamentali, di far vivere l’uomo felicemente:

– l’uomo non deve temere gli dei, in quanto questi ultimi non si interessano alle vicende umane (“gli dei accolgono chi gli è simile e considerano estraneo chi non lo è”).

– non bisogna avere paura della morte perché quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c’è la morte non ci siamo noi (“Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più”). 

– l’uomo non deve temere la mancanza del piacere, infatti la felicità, se comprendiamo bene che cosa è, è sempre alla portata di mano (“In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l’inutile è difficile”)

– non dobbiamo temere il dolore fisico in quanto, se è acuto, allora o è provvisorio oppure porta alla morte, mentre se è lieve, allora è sopportabile.

I piaceri secondo Epicuro potevano essere di due tipologie:

catastematici, o stabili, raggiunti mediante l’aponia e l’atarassia.  

cinetici, o in movimento, come ad esempio la gioia e la letizia, quei piaceri che dipendono da eventi esterni e sono spessi mescolati con il dolore.  

Epicuro riteneva che per raggiungere una  felicità stabile l’uomo dovesse ricercare il piacere catastematico, ovvero un piacere che consegue al soddisfacimento dei bisogni naturali

Secondo il filosofo esistono infatti tre tipi di bisogni: 

bisogni naturali e necessari, sono quei bisogni che l’uomo deve perseguire, come ad esempio il bisogno di nutrirsi o quello di riposarsi.

bisogni naturali e non necessari, derivano da un eccesso non necessario dei bisogni precedenti.

bisogni non naturali e non necessari, sono tutti quei piaceri non indispensabili per la vita dell’uomo come ad esempio la fama e la gloria. 

Soddisfacendo solamente i primi bisogni l’uomo riuscirà, secondo la dottrina epicurea, a vivere una vita felice.

 

Locke

L’idea di felicità per Locke, filosofo vissuto tra 1632 e il 1704, è strettamente collegata alla sua concezione politica.

Lo stato politico secondo il filosofo nasce dalla necessità di passare dallo stato di natura, che potrebbe sfociare a causa della vendetta in uno stato di guerra, ad uno stato con un governo civile.

Lo stato di Locke nasce in seguito alla formulazione di due patti

pactum unionis, secondo cui gli uomini si riuniscono e raggruppano i propri diritti dando vita alla sovranità collettiva;

pactum subiectionis, secondo cui  gli uomini cedono la propria sovranità collettiva al sovrano il quale dovrà garantire le libertà del popolo. 

Secondo Locke, contrariamente a quanto pensava Hobbes, questi due patti sono distinti, dunque è possibile sciogliere il pactum subiectionis senza intaccare quello precedente; affermando ciò, Locke ritiene legittima la possibilità di un popolo di ribellarsi se il proprio sovrano non rispetta i patti stabiliti. 

Questo patto ci porta a comprendere altri aspetti dello stato ideale delineato dal filosofo:

– la sovranità non appartiene ad un unico individuo ma va spartita per evitare possibili assolutismi.

– i diritti naturali diventano diritti positivi, ovvero diritti sanciti dallo stato, e sono per esempio quello alla libertà di opinione, di religione, di parola, di associazione…

– solo il sovrano può esercitare il potere di spada sempre nei limiti della legge.

Lo stato delineato da Locke è dunque uno stato libero e democratico e, “Due trattati sul governo”, l’opera nel quale lo stato è descritto, sarà presa a modello da numerosi stati contemporanei. 

Con la formazione di uno stato di questo tipo si giunge dunque, secondo Locke, in una situazione in cui è possibile attuare la ricerca della propria felicità, ritenuta dal filosofo un diritto dell’uomo.

 

Hobbes

Thomas Hobbes fu uno dei filosofi inglesi più di spicco del XVII secolo. Anche nel suo caso il concetto di felicità è strettamente legato alla sua visione politica. Questa, in quanto giusnaturalista, parte dal concetto di “stato di natura”. A differenza di quanto abbiamo avuto modo di vedere nel pensiero lockiano, qui le azioni dell’uomo in una realtà priva di stato sono dominate da un forte egoismo, che prevede che ognuno agisca per il proprio tornaconto personale. I beni a cui ciascuno punta, però, non sono sufficienti per tutti. Ciò porta inevitabilmente a un accanito scontro tra gli stessi uomini, che, se non dovesse cessare dopo una certa quantità di tempo, finirebbe per portare all’estinzione dell’intera specie. 

Secondo Hobbes però, tutti gli uomini cercano di sfuggire alla morte violenta. Questa idea porta il filosofo a pensare che l’umanità non abbia mai vissuto in una condizione priva di una, anche se minima, organizzazione civile, capace di regolare i rapporti dei propri membri.

Questa è la base da cui Thomas Hobbes partì nello sviluppo di una delle sue opere più note, se non la più nota, “Leviatano”, pubblicata nel 1651. Il nome di questo trattato di filosofia politica non è casuale: il filosofo inglese sceglie questo termine proprio per anticipare quello che secondo lui deve rappresentare il suo stato ideale, un grande corpo le cui membra sono i singoli cittadini

Nell’opera, Hobbes propone quella che crede essere la forma di governo migliore a cui gli uomini si dovrebbero affidare, un assolutismo. In uno stato assoluto, quindi, il potere è affidato ad un unico sovrano, che detiene il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo. Il filosofo infatti sostiene che, qualora le responsabilità fossero divise tra più persone o organi, questi ultimi inizierebbero a lottare tra loro.

Da dove sorge allora il concetto di felicità nella visione politica di Hobbes? 

Thomas Hobbes crede che la felicità non sia un fine ultimo dell’esistenza dell’uomo. Essa deve essere un continuo progredire del desiderio di un oggetto ad un altro: infatti gli esseri umani non puntano a gioire una sola volta o per un ristretto istante di tempo, ma puntano a mantenere la strada libera per spostarsi da un desiderio all’altro. Ciò che deve garantire la continuità della felicità nella vita degli uomini è proprio lo stato, che di norma dovrebbe garantire ad ognuno una serie di diritti, che per i giusnaturalisti sono la libertà, la vita e la felicità. Ma non solo, lo stato si deve impegnare anche a reprimere la paura della povertà e della morte negli individui, che mettono a rischio i loro desideri.

 

Schopenhauer

Arthur Schopenhauer, vissuto nell’ ‘800, si differenzia dai filosofi citati precedentemente per un pensiero che vede la felicità, o meglio, il piacere, quasi al centro della sua filosofia, ma in senso negativo. Il pensatore tedesco, infatti, afferma che la vita è una continua condizione di sofferenza: il piacere, fisico o psichico che sia, è solo momentaneo. Non solo, il percorso verso il raggiungimento della felicità prevede ciò che potremmo definire una sorta di “legge del contrappasso”: per completarlo, è necessario colmare l’assenza di qualcosa che ci manca, che è causa di sofferenza. Tuttavia, il dolore non si manifesta solo prima del piacere, infatti questo può essere sperimentato anche senza essere preceduto da una condizione di benessere. La vita non è però solo dolore e piccole cessazioni futili di esso, ma è anche noia. Quest’ultima è una condizione in cui l’uomo non soffre, ma non sa cosa fare della sua esistenza.

Dal momento che è legata al concetto di felicità, assume una rilevante importanza anche la visione schopenhaueriana dei rapporti umani, visti non molto positivamente: secondo il filosofo, questi sono caratterizzati da un continuo conflitto e dalla sopraffazione reciproca, cosa che abbiamo già avuto modo di analizzare prima nella visione dello stato di natura di Hobbes. Inoltre, anche l’opinione verso l’amore viene ribaltata: esso ha come fine solo quello di garantire che la specie non si estingua.

Tra gli scritti postumi del filosofo troviamo “L’arte di essere felici” (1997), opera composta da 50 massime il cui insieme costituisce l’idea che il piacere e la felicità siano illusioni, mentre “la sofferenza e il dolore sono reali e si annunciano immediatamente da sé, senza bisogno dell’illusione e dell’attesa”. L’unico scorcio “ottimista” che possiamo trovare nell’opera è che, nonostante la felicità quindi non esista, si può comunque cercare di ridurre l’infelicità, anche se, come detto prima, sarà solo una condizione momentanea (“vivere felici può significare solo vivere il meno infelici possibile.”)

Nonostante tutti gli esseri soffrano, poiché hanno la stessa origine (la voluntas), l’uomo è quello che si trova in maggiore difficoltà, dal momento che oltre alla sensibilità possiede una coscienza, caratteristica che lo rende più “debole” di fronte al dolore.

 

Nietzsche

Negli scritti di Nietzsche, filosofo tedesco della seconda metà del XIX secolo, la felicità risulta essere legata molto alla visione della storia. Per trattare questo concetto, il filosofo tedesco paragona l’uomo ad un qualsiasi animale, evidenziando come il primo sia troppo legato al passato, dal momento che basa la sua vita su di esso, mentre il secondo si dimentica addirittura ciò che pensa e che sta per esprimere. Ciò che Nietzsche intende dire con questo esempio, tratto da “Considerazioni inattuali” (1874), opera in cui va contro il pensiero comune degli uomini del suo tempo, è che l’uomo ha bisogno di oblio nella sua vita: per poter agire correttamente nel presente, spesso occorre saper dimenticare il passato. Infatti, quello che rende la felicità tale è il saper cogliere un attimo particolare della nostra vita cercando di viverlo al massimo.

L’uomo, così com’è, non avrà mai la possibilità di raggiungere questo stato però: solo colui che Nietzsche definisce “Übermensch” o “oltreuomo” avrà la capacità di fare un salto.

Ma cos’è l’oltreuomo, comunemente conosciuto anche come “superuomo”?

Nel momento in cui lo introduce, Nietzsche sceglie di usare delle negazioni, quindi non ci dà direttamente una definizione. Quello che il filosofo afferma è che questa nuova evoluzione dell’uomo deve avere tre caratteristiche: la fedeltà alla terra, la capacità di saper vivere nell’eventualità di un eterno ritorno, la volontà di potenza.

Ciò che Nietzsche afferma è che l’uomo deve smettere di nascondere la testa nella “sabbia delle cose celesti” e deve iniziare a considerare la terra come sua dimora e il corpo come modo concreto di esistere nel mondo. L’oltreuomo deve saper vivere pienamente una sola vita, quella terrena (Nietzsche infatti si scaglia contro il Cristianesimo, i cui fedeli vivono in prospettiva di una realtà ultraterrena a cui potranno accedere dopo la morte). Inoltre, Nietzsche parla di circolarità del tempo, spiegando che il superuomo deve essere pronto a vivere la propria vita appieno anche qualora questa condizione dovesse rispecchiare la realtà. Infine, egli deve distaccarsi da tutti i vecchi valori e imparare a crearne di nuovi. 

In sostanza, l’uomo raggiungerà la vera felicità (e non quella fittizia, che è originata da “accessori” come, per esempio, la ricchezza) solo quando farà un salto di qualità diventando Übermensch, superando i propri limiti. Ciò però non basta, perché il raggiungimento della felicità è dato da una conquista personale, da una battaglia: non siamo realmente felici se non ci mettiamo in gioco.

Articolo di Claudio Bazoni Simone Semperboni

 

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