Il Futurismo degli anni ’20, nel secolo sbagliato.

Sembra tutto troppo veloce. Siamo ormai la generazione dei quindici minuti di fama di Warhol, degli articoli che si fermano al titolo, degli aforismi al posto di strofe di endecasillabi e delle notizie che non durano più di una proposizione. Veniamo ribaltati da una parte all’altra del mondo nel giro di poche ore, ci sediamo tranquilli sulla pensilina, aspettando un tram che passerà in cinque minuti e poi un altro tra dieci e un terzo tra quindici. Pur stando fermi nel centro della nostra piccola città, con quel miracolo della tecnologia che ora è un’estensione del nostro polso, viaggiamo in paesi improponibili alla velocità in cui i pixel si caricano sullo schermo. Senza dover correre e avere il batticuore, semplicemente seduti. Oppure leggendo l’opinione di un tale su un sito qualunque, a cui rispondiamo con frenesia, erigendo un’interazione che si abbatte e brucia lì, nella sua caducità. Conserviamo la nostra sottile scatola rettangolare e la nascondiamo con pudore agli occhi degli altri, talvolta anche a quelli di amici. Ci poniamo quattro dita davanti per coprirlo interamente, come se l’osservatore ci vedesse nudi ed istintivamente censuriamo il corpo arrossendo.

La mia paura, quella di un adolescente poco diverso dagli altri, è di crescere in un ambiente dinamico che mi tolga il tempo di respirare a fine giornata. Ho paura di perdere il senso del presente, di vivere trattenendo in me gli attimi rimpianti che piano piano fuggono verso l’abisso del passato, e contemporaneamente inseguire i sogni utopici di un futuro infinito. Il rischio, nelle nostre giornate frammentate tra un’azione e l’altra, è non riuscire ad afferrare il presente, troppo piccolo fotogramma della nostra quotidianità. Noi siamo animali pensatori, ma privati del presente e del suo regalo, cioè il pensiero, siamo inconvertibilmente sulla strada che riporta alla natura primordiale. Stiamo attuando ormai la nostra trasformazione in quella nuova specie che Seneca definirebbe gli “occupati”, troppo affaccendati nelle azioni per riservare del tempo alla contemplatio. 

Il nostro futuro è minacciato da noi stessi e da una possibile società dominata dal dinamismo e schiava del progresso: seguendo l’equazione esponenziale che abbiamo già intrapreso, temo l’esistenza di un mondo piatto in cui la percentuale minima di interazioni formerà uomini e donne senza personalità, condannate alla solitudine e all’individualismo. Dobbiamo spegnere questi rapporti che muoiono non appena terminano i giga ed uscire a condividere la nostra opinione, facendo cioè quello che ci rende più umani di ogni cosa sulla Terra ed arrivare anche alla lite in un dibattito piuttosto che lasciar scorrere l’indifferenza e l’apatia. La percezione di un mondo che pecca di dialogo è visibile in tante occasioni: nei lunghi silenzi di una cena al ristorante, nella paura che blocca gli studenti quando viene posta loro una domanda, nel disinteresse generale degli spettatori che assistono a una borsetta che cade, lasciando portafogli e cosmetici sparsi per terra. E’ ironico, no? Noi, che in un secondo potremmo comunicare con qualcuno dall’altra parte dell’oceano, tacciamo quando c’è accanto a noi un compagno di banco che non conosciamo. Dobbiamo combattere questo approccio distaccato e questa tecnologia alienante, prima di sentirci alieni noi stessi nella nostra mente. La contemplatio non deve diventare desueta o addirittura perdersi, perciò è nostro compito risvegliare l’immaginazione e la parola con frequenza per non addormentare la mente, nostra fonte di vita e colore.

Abbiamo, senza volerlo, creato una società basata sui punti del manifesto di Marinetti del 1909, che gioirebbe in questo momento se potesse. Abbiamo lodato le macchine e la velocità e ci siamo sottomessi a loro, diventando predicatori del progresso e sudditi del denaro. Ora che abbiamo tutto quello di cui avevano bisogno i nostri antenati, ci manca il tempo.

 

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